Più si guarda, più ci si commuove, più ci si emoziona di fronte alla visione di “Elephant man”, il film del 1980 di David Lynch, tanto più ci si rende conto della potenza dirompente, cinica, maestosa di “Freaks” di Tod Browning di 48 anni prima, e rimasto nei sotterranei della censura per molto tempo.

I due film trattano un tema rovente, indigesto, malvisto dall’edonista pianeta cinematografico: il mostro-umano.

Ma attenzione. Non l’umano che per interposizione della fantasia diventa mostro. No, quello si accetta, piace, ci affascina. Perché si sa che è frutto dell’immaginazione.Ma quando l’uomo vede il suo simile con le sembianze reali di un aborto, un essere immondo, allora cambia completamente tutto. Non lo si accetta. Lo specchio non riesce a reggere qualcosa che non rientra nei canoni naturali.

E lo rigetta.

I mostri di Browing ed il mostro di Lynch non sono simili. Anzi, sono antitetici.Browing ha fondato la sua innovativa e rivoluzionaria opera su un principio: l’accettazione del proprio stato.I mostri di Freaks si piacciono per quelli che sono. Fanno l’amore, si divertono, ridono, scherzano. Appaiono nei primi piani esattamente come sono, senza gambe, braccia, deformi…in una parola, orribili.

Utilizzano tuttavia emozioni umane su corpi non umani. Sanno anche essere violenti. Non cercano pietà, amicizia, l’ipocrita accettazione borghese che si limita, per curiosità o diletto, a riconoscere il non – umano. E, soprattutto, non si lamentano del loro stato.Non vogliono essere riconosciuti come umani, ma per quelli che sono: mostri.E oltretutto sono tanti, consapevoli che pur nelle differenze delle loro mostruosità, godono di questo beneficio comune. E il passo alla connivenza, complicità, è breve.

John Merrick è esattamente agli antipodi. Intanto è solo. Poi non accetta di farsi vedere per quello che è, perché L’Uomo Elefante si ritiene uguale agli altri uomini. Certamente è condizionato da una spina dorsale che non gli consente naturali movimenti, oltre ad una forte difficoltà espressiva. Per non parlare di un corpo coperto da 90% di tumori. Ma anche Lui possiede emozioni umane.John pretende l’affetto dagli altri. Aveva una bellissima madre, raffigurata in un piccolo quadretto che fa vedere agli altri come un trofeo. Vuole dimostrare che non è un figlio di mostri, ergo, il suo aspetto esteriore è un caso, un accidente.

Lui è umano come gli altri, come la sua bellissima mamma.E’ solo un bambino che vorrebbe andare a letto come gli altri bambini, ma che non riesce a farlo.Ed appena gli viene fornita la possibilità, quella offerta dal Dr. Treves per una pietas disinteressata- simmetricamente opposta al comportamento di tutti coloro che volevano sfruttare commercialmente le anomalie di John- quest’ultimo dimostra la sua umanità, delicatezza, dolcezza, pacatezza nei movimenti, nello sguardo, nella voce.

Ecco perché tutta l’opera di Lynch è permeata da una lieve melanconica, da un continuo contrasto tra l’oggetto perduto che si vorrebbe riacquistare e la coscienza di non poterlo mai riottenere: lui sa che non guarirà mai.

Ed ecco perché, specularmente, l’opera di Browning è caratterizzata da una forte violenza visiva, dalla persistente volontà da parte dei suoi mostri di imporre che la loro vita è già uguale a quella degli altri. Non devono chiedere nulla, né tanto meno ottenerla.Se quindi il fondamento, il centro propulsore, orbitale, delle due opere è la diversa prospettiva del concetto di accettazione del proprio stato da parte degli Altri,

i film di Lynch e Browning, ci dimostrano che tutto non dipende dalla volontà di coloro che ci devono accettare, ma anche dalla nostra volontà di farci riconoscere come tali.Si può anche non desiderare il desiderio degli altri, il loro riconoscimento, ma non per questo si rinuncia alla propria identità.