The Farewell – Una bugia buona (USA, Cina, 2019). Regia: Lulu Wang. Interpreti principali: Zhao Shuzhen, Awkwafina, X Mayo, Hong Lu, Kong Lin, Tzi Ma, Diana Lin, Gil Perez-Abraham, Ines Laimins, Jim Liu
Prodotto negli Stati Uniti ma girato prevalentemente in Cina, con regista e interpreti cinesi, come dichiara fin dai titoli di testa, The farewell è basato su una bugia vera: racconta infatti la cesura culturale relativa al concetto di morte che si respira nei due Paesi in cui si svolge la vicenda.
Sul lato asiatico del Pacifico la diagnosi infausta non va condivisa con il morituro: la famiglia si tiene dentro il peso della comunicazione ricevuta dai medici, alleggerendo così il cammino della persona che è giunta al termine della sua strada e accollando su di sé la sofferenza per ciò che inevitabilmente accadrà. E’ una forma di restituzione di amore, di rispetto per l’altro, di accoglimento dei suoi bisogni e delle sue residue speranze. Dall’altro lato dell’oceano la morte è parte di una procedura allargata: ci sono formule, protocolli, strade ben definite in cui le responsabilità vengono suddivise e parcellizzate. Per timore di conseguenze legali è un obbligo di comunicazione che non contempla le necessità dell’altro né considera la possibilità di esser emesso in discussione: è così e basta.

Allora quando Billi, cinese emigrata negli States da piccola, apprende che alla nonna paterna Nai Nai è stato diagnosticato un tumore ai polmoni allo stadio terminale e raggiunge in Cina i genitori che non avevano voluto coinvolgerla, si ritrova in mezzo a un guado senza sapere bene su che sponda approdare: da una parte le famiglie dei due figli, una emigrata negli USA e una in Giappone, si ritrovano unite nel tacere la verità e organizzano un falso matrimonio per nascondere a Nai Nai il vero motivo della loro presenza.

Dall’altra Billi, una ragazza ormai trentenne, irrisolta e incapace di trovare una strada nella vita, si chiede se sia giusta una scelta che toglie a Nai Nai la possibilità di essere consapevole della propria situazione. Ma Billi è ormai americana, vive a New York dall’età di sei anni e le sue radici sono soprattutto affettive; i genitori e gli zii (insieme al cugino, che ha coinvolto un’amica con cui fingerà di organizzare il proprio matrimonio) appartengono invece in blocco a una cultura in cui il valore dell’altro supera quello della propria messa in sicurezza. L’oncologo, che pure ha studiato nei paesi anglosassoni, comprende questa frattura invisibile e non insiste per la verità. Il dilemma, parafrasando Gaber, rappresenta l’equilibrio delle forza in campo: Billi non può parlare, ma al contempo nemmeno accettare il fatto che la verità debba essere taciuta. In questa terra di mezzo e di nessuno troverà la spinta a quella crescita personale che ancora le sfuggiva.
Il film racconta una storia ordinaria sul fine vita, polarizzando le posizioni grazie all’espediente dei due mondi da cui provengono i suoi protagonisti: uno dei principali dibattiti in cui la società civile sopravanza la politica la quale, da parte sua, non sa prendere -almeno da noi- una posizione. E al contempo sottolinea le profonde distanze che i protagonisti non sanno colmare. Oriente e occidente vanno a confronto su un tratto fondamentale del percorso umano, l’ultimo. Cosa farne? Come viverlo (o lasciarlo vivere)? L’amore può superare il diritto? Il diritto può surrogare il legame affettivo? Domande che si ripercuotono su altri aspetti dell’esistenza, e che una giovane adulta sospesa tra due mondi può incarnare meglio di chi è nato da una parte sola o di chi ha abbandonato la propria patria da adulto.
La pellicola ha un andamento sinusoidale, con picchi e avvallamenti che corrispondono alla realtà delle diagnosi e alla finzione del wedding planning. Una danza narrativa che alterna con eleganza tragedia e commedia, dimensione collettiva e scelte individuali.
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