THE HOUSE THAT JACK BUILT (2018) di LARS VON TRIER

The House That Jack Built è sicuramente l’opera più disturbante e macabra di Lars Von Trier, ma nel contempo quella filosoficamente più interessante. Ed anche la più lineare, agevolmente interpretabile se raffrontata alla complessità tipica dei nuclei diegetici delle opere del regista danese.

Il dialogo presente nei primi fotogrammi dell’opera approccia ad un viaggio. Ed infatti The House è un’odissea nell’inferno mentale di un serial killer psicopatico, Jack, e sulle origini di questo inferno; viaggio che Jack compirà insieme al suo psichiatra, Verge (Bruno Ganz) e nel quale verranno descritti in maniera puntuale i crudeli impulsi che sono alla base delle orride gesta di Mr. Sophisticated, come viene chiamato dai media. Ed infine è un viaggio allucinante su un altro inferno, questa volta terreno, visibile, presente sotto la crosta del nostro pianeta Terra, dove Jack e Verge assumono chiaramente (com’era facilmente intuibile fin dall’inizio) le parti di due novelli Dante e Virgilio.

L’opera è strutturata in cinque parti (“incidenti”) ed un epilogo, il viaggio sotto la terra, oltre ad essere intervallata da dialoghi che reggono parti interamente documentaristiche.

Jack è un Killer psicopatico compulsivo, ossessionato dall’ordine, dalla pulizia e dalla perfezione, ma anche da un sogno: la costruzione della sua casa. Lui, ingegnere di professione, ama l’architettura, e dalla combinazione di queste due arti ambisce a questo obiettivo che tuttavia non riesce a realizzare. Iniziate a costruirle, decide puntualmente di distruggerle. Il motivo? La causa di ciò non è dovuta alle sue scelte architettoniche, ma come dirà espressamente a Verge, alla materia. La materia, da sola, non si modella come vorrebbe Lui: compresa quella umana.

I suoi efferati ed assurdi omicidi, simbiosi di depravazione e sadismo, ed in particolar le loro agghiaccianti modalità di esecuzione, vengono motivati da Verge come espressione del suo Ego, della sua tendenza a decidere la vita e la morte delle persone al di fuori da ogni legame etico o moralistico. L’uomo è un ammasso di carne, cioè di materia, e come tale dopo la morte, e prima della sua naturale decomposizione, può essere modellata. E quello che non riesce a fare con la sua casa lo fa con le sue vittime. Acquistata una enorme cella frigorifera, lì ammassa i corpi orrendamente uccisi che serviranno per dare sfogo alle sue follie.

Ma l’azione psicopatica e criminale di Jack è l’effetto non solo della sua equipollenza della materia alla vita, ma della sua stessa concezione della vita che termina con la morte, incompatibile con l’amore (che non struttura l’uomo) e con la religione (che ucciderebbe la Tigre che è in noi, qui con evidenti influssi nietzschiani), nonché soprattutto con l’arte che pur provenendo dall’uomo deve essere libera da vincoli morali, come la vita stessa. E’ qui è interessante la querelle di natura filosofica che sorge con Verge, il quale, invece, in piena antitesi con Jack, evidenzia l’importanza dell’amore e della religione per gli uomini, ben lontani da essere solo materia, e della stessa arte vista come sintesi di amore e sentimento.

Jack è un essere sfrontato, superbo, sempre lucido, incurante di ogni reazione esterna nei suoi confronti. Ma la sua azione è sorprendentemente semplificata anche da una società indifferente rispetto a quello che avviene intorno, assuntrice di un “silenzio assordante”, come dirà lo stesso Jack prima di uccidere una ragazza che gridava pensando di essere sentita all’interno di un palazzo. E quindi, Von Trier, attraverso Jack, rappresenta l’uomo moderno come materia effettivamente arida, nuda, isolata, in piena sintonia con la considerazione che la stessa società ha dei suoi componenti, incurante di vederseli massacrare.

Il regista danese costruisce un’opera molto interessante, forse proprio per la lucidità espressiva della sua riflessione sul rapporto tra uomo e la sua psiche, e l’uomo e la società. Nella parte documentarista pregevoli sono i riferimenti alle varie forme d’arte del Novecento (tra gli altri la ripresa video del compositore Glenn Gould, o i cartelli con le parole rivolti alle telecamere che Jack, come fece Bob Dylan nel video del brano “Subterranean Homesick Blues” nel 1965, getta uno ad uno a terra; oppure le spiegazioni architettoniche di alcune opere europee).

L’opera di Von Trier pone, pertanto, all’interno del suo nucleo concettuale fondante la tesi, cara ad alcuni pensatori del Novecento, della Distruzione finalizzata ad un nuovo Inizio. Pensiamo al campione dell’esistenzialismo come Sartre, per il quale la radice dell’odio non sta solo nel distruggere, ma in quello di annientare tutto, eliminare l’Altro, per ricominciare da zero. Le nefaste dittature novecentesche richiamate nelle parti documentaristiche (nazismo, stalinismo, maomismo, fascismo) non sono pertanto molto dissimili rispetto alla follia psicopatica di Jack tutte le volte in cui un essere ritiene di ergersi davanti a tutto e tutti, considerando l’altro uomo come materia.

Nella prima parte del film le scene truci, assorbite ed in contrasto con la spontaneità scenica e dialogica tipica di Von Trier, si combinano con alcune parti grottesche, confermando che nella finzione cinematografica atrocità e assurdo sono due componenti simbiotiche. Nell’ultima parte, scenicamente la più bella (ma forse una delle più belle dei film di Von Trier), una stupenda fotografia, che richiama molto gli slow-movie di “Antichrist” e “Melancholia”, sublima l’idea di un inferno terrestre dove la forza di una natura potente si innalza su ogni bassezza umana.

L’esito del film è scontato. E non poteva essere diversamente per uno psicopatico narcisista che aveva posto il suo sconfinato ego come fonte delle sue atrocità.

Ma Jack, prima di entrare all’inferno, costruirà, all’interno della cella frigorifera, la sua piccola ma orribile casa, su consiglio di Verge. L’unica che poteva erigere. Perché l’edificazione della morte può essere solo la morte stessa.