The President (Iran, 2014). Regia: Regia di Mohsen Makhmalbaf. Interpreti principali: Misha Gomiashvili, Dachi Orvelashvili, Mikheil Gomiashvili, Ia Sukhitashvili, Guja Burduli.

Narra la leggenda che Siddharta Gautama, figlio di un rāja dell’India del nord, era stato allevato dal padre nel lusso della vita di corte affinché un giorno potesse succedergli al trono. Ma all’età di 29 anni uscì per la prima volta dalla reggia per conoscere la vita delle persone che stavano fuori dal palazzo e dalle quali era sempre stato tenuto lontano: fu così che scoprì la realtà e comprese che tutte le ricchezza di cui era stato circondato fin dalla più tenera infanzia non erano altro che valori effimeri che scomparivano di fronte alla sofferenza del mondo.
Non è dato sapere se Mohsen Makhmalbaf si sia ispirato a questa vicenda. Certo nel film ha messo molta della propria storia personale: nato nel 1957 a Teheran, nel 1972 si unì alle milizie che combattevano contro il regime e due anni dopo venne arrestato per la sua attività sovversiva. Scarcerato nel 1979 a seguito della caduta dello Scià iniziò a dare forma alla sua protesta contro ogni oppressione prima come scrittore e commediografo, poi come sceneggiatore e regista.

The President racconta la storia di un vecchio e un bambino. Il primo è il dittatore di uno Stato immaginario mentre il nipote di cinque anni, a seguito della morte dei genitori a causa di un attentato, è il suo erede designato. Una sera, mentre il nonno gioca a dire al nipote “Tutto questo un giorno sarà tuo” dimostrandogli che basta una telefonata per spegnere tutte le luci della capitale, scoppia la rivolta della popolazione e la situazione precipita; tanto velocemente che nonno e nipote sono costretti ad assumere nuove identità per provare a mettersi in salvo.

Inizia così un viaggio nella vita vera, così diversa da quella ovattata di corte alla quale il piccolo era abituato. Mentre il nonno, travestito da musicista di strada, insieme alla pistola continua a conservare l’identità di dittatore arrogante, il bambino scopre un mondo completamente nuovo, diverso da quello cui era abituato: non capisce perché adesso non può più appellarsi al nonno come “Altezza reale”, e nei suoi pensieri continua a rincorrere la piccola Maria, una coetanea figlia del suo istitutore insieme alla quale veniva avviato alla vita e alle danze di corte.

Maria è nei suoi pensieri quando salta i pasti, svolge lavori umili, scopre la miseria di un regno che credeva perfetto e si scontra con la violenza di soldati che pensava fossero solo normali custodi dell’ordine. Le sue domande si riferiscono tutte a questa frattura, a un cambiamento di cui non riconosce la portata e non sa spiegarsi. In questo viaggio iniziatico, protetto dal nonno nel suo unico accenno di umanità, i due scopriranno da vicino la brutalità della polizia: la stessa che prima torturava gli oppositori e ora tiranneggia i profughi, in fuga da una guerra civile di tutti contro tutti. A un posto di blocco passare da una danza a uno stupro, e da uno stupro a un omicidio, è una sequenza che nessun adulto, presente alla scena, riesce a spiegarsi, ma nemmeno a fermare.
I due si dirigono verso una spiaggia dove dovrebbero essere salvati da una barca guidata da fedelissimi del regime, prelevati e portati in salvo in un altro Paese.

Per arrivarci utilizzano un mezzo di trasporto che si trascina nel degrado lasciato dalle violenze, insieme ad altri compagni di sventura che scoprono essere prigionieri politici fatti torturare dal dittatore, che però sotto le sue nuove vesti non sanno riconoscere. Durante il viaggio parlano, si confidano, cercano di dare un senso a ciò che sta accadendo. La vendetta è l’unico modo per compensare tutto il male subito, o è invece nuovo carburante per un male ancora da compiere? Il perdono, che volle Mandela per i suoi oppositori, ma con il riconoscimento degli errori del passato regime, può essere una strada da percorrere? Una sorta di pacificazione nazionale, che travolge la tradizione della fine violenta e ingloriosa dei dittatori, da Ceausescu a Gheddafi, ma che si differenzia anche dalle transizioni di facciata di molte tra le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, è così difficile da concepire e mettere in atto? La forza d’inerzia della violenza, la reazione ad anni di vessazioni ed ingiustizie, può arrestarsi a un punto fermo e utilizzare le sue energie per ricostruire ciò che la violenza del regime aveva distrutto?
Tutte domande che il Presidente, durante l’epilogo della sua storia, probabilmente non ha saputo o voluto affrontare. Come l’ex premier raccontato in Hammamet, ormai prigioniero di un personaggio che agli altri, e solo agli altri, attribuiva ogni responsabilità per la propria caduta.