In The Truman Show (1998), Jim Carrey interpreta il ruolo di Truman, trentenne all’apparenza inserito alla perfezione in una quotidianità che si rivelerà essere pura finzione. Uno spettacolo televisivo in diretta 24 ore su 24, seguito da circa 5000 telecamere.
Con accorto inserimento di prodotti commerciali ad allietare le già confuse menti di telespettatori-marionetta, soldatini addestrati a vivere un’esistenza che non appartiene loro. Vittime consapevoli di un tanto agognato quanto distorto desiderio di vivere la vita di qualcun altro.
“Là fuori non troverai più verità di quanta non ne esista nel mondo che ho creato per te. Le stesse ipocrisie, gli stessi inganni… ma nel mio mondo tu non hai niente da temere”.
Era il 1998 quando Per Weir portò sul grande schermo un piccolo capolavoro tragicomico, surreale, distopico e profetico di un modo di rapportarsi ai media che, soprattutto dagli anni 2000 in poi, dilagherà rendendoci tutti degli impeccabili e tremendi voyeuristi. Ed Harris con questa performance, una delle sue migliori in assoluto, si guadagnò una candidatura agli Oscar come miglior attore non protagonista e la vittoria del Golden Globe.
Il regista ha voluto appositamente giocare con il titolo dove Truman sta per True-Man, ad indicare il protagonista come unica presenza autentica e reale dell’intero preparato.
Truman è ufficialmente figlio di una gravidanza indesiderata ma ufficiosamente creazione “divina” di Cristoph, il regista, Deus Ex Machina che manovra tutto, prestando attenzione ad ogni variabile possibile, fagocitato da manie di grandezza travestite da “genio creativo” che si rivela per dare voce ad una follia suprema, vanitosa e pretenziosa, come tutte le follie, di essere nel “giusto”.
Ogni istante della vita di Truman altro non è che una menzogna, una realtà fittizia, un artefatto in cui nessun elemento è reale e tutto risponde alla logica della programmazione, del controllo, del sopruso travestito da gentilezze inautentiche, un mondo utopico che sta covando la peggiore delle distopie possibili: la negazione del libero arbitrio, della scelta, del qui ed ora con tutto quello che comporta, con la sua spaventosa, straordinaria (passatemi l’ossimoro) ed essenziale verità: non possiamo controllare proprio niente!
Provate per un momento, mentre leggete queste parole, ad immaginare di svegliarvi domani mattina, scendere dal letto e prepararvi alla quotidianità come l’avete sempre conosciuta, con tutto quello che comporta: non togliete nulla, tenete la noia, la disillusione e i sogni infranti, trattenete i rimorsi e i rimpianti, poi respirate e sentite anche la sicurezza che questa vita vi regala ogni giorno. La casa, la famiglia, il lavoro, le stesse persone, alla stessa ora, nel susseguirsi della vita di ognuno di noi. Immaginate ora che nulla di quello di cui fate parte, nulla di quello che avete sempre conosciuto sia reale. Immaginatevi all’interno di uno studio televisivo, in cui la vostra vita è governata da telecamere e da appositi scrittori che decidono la musica, il sole, la luna, la pioggia, Dio stesso. Non esiste nulla. Che sensazione provereste a svegliarvi e rendervi conto che non siete mai esistiti così come vi siete sempre riconosciuti?
È il furto dell’identità, è come se qualcuno scippasse la vita che vi tenete stretta come una signora farebbe con la sua borsetta di Chanel in un ghetto malavitoso.
Cosa c’è di più “maledetto” di questo? Di privarci di noi stessi e di scoprire di esserci dati in pasto al mondo per circa 30 anni, un mondo che per di più ci venera e che abbiamo a nostra insaputa strappato dalla realtà, con una realtà fittizia? Dico, è un trip mentale degno di gloria, no?
La distopia individuale a cui assistiamo è in realtà il fallimento di un intero sistema. E’ il rifiuto della realtà così com’è, con tutto quello che non possiamo controllare, con tutte le variabili che sono al di fuori di ogni funzionamento logico o immaginale.
Scritta dal giovane Andrew Niccol (già autore di Gattaca, La porta dell’Universo) si tratta di una storia di grande spessore, di forte coinvolgimento, incisiva sul piano espressivo e delle immagini. Evidente l’intenzione di mettere in luce i confini ormai labilissimi tra realtà e fantasia nella civiltà del Duemila dominata dai media: l’argomento non è nuovo ma è svolto in modi così incalzanti e stringenti da portare in primo piano la riflessione (più ampia e senza confini storici) del rapporto tra l’individuo e la sua manipolazione, tra libertà e schiavitù, tra progresso e ritorno alla barbarie.
Ma soprattutto, l’insoddisfazione dai sinistri toni apocalittici che affligge ognuno di noi, incapaci di fare della nostra vita un capolavoro così com’è, con quello che abbiamo e per quello che siamo, unici nel nostro caos esistenziale ed esperienziale. Un film inquietante, tra denuncia e speranza, che si ricollega a certi scenari apocalittici come ‘Metropolis’ di Fritz Lang, e che in maniera diretta e inequivocabile mette tutti di fronte alle proprie responsabilità: realizzatori ma anche esperti, critici e pubblico.
The Truman Show è ispirato ad un episodio di Ai Confini della Realtà e strizzando l’occhio a 1984 d i George Orwell anticipa il boom dei reality televisivi e punta il dito verso il controllo stringente dell’altro nei confronti dell’uomo comune ed anonimo.
Un po’ come nel Mito della Caverna di Platone, quello che prevale, in un tanto sperato quanto meritato lieto fine, è la volontà di voler fuggire a questo controllo, acquisire la propria libertà, di voler essere Ulisse o meglio ancora Colombo (considerando che la barca con cui Truman abbandona la sua città si chiama Santa Maria).
È la tenacia e la caparbietà dell’individuo che riesce a ribellarsi e liberarsi dalle catene della società andando verso un futuro ignoto, ma quantomeno reale. Truman abbandona il suo show governato, in cui è tutto deciso, è tutto manipolabile, tutto sotto forma di spot pubblicitario, per andare incontro alla vita vera, che per sua caratteristica intrinseca non è possibile gestire.
Ma la lezione, allo spegnersi dei riflettori è solo per noi: i veri fautori di quel disgusto, noi telespettatori che depraviamo le nostre vite per ripararci in quelle altrui. Per paragonarle a quelle altrui nell’infinita rincorsa di quello che non siamo o che non abbiamo.
In realtà, c’è un po’ di quel Truman in ognuno di noi. Solo che noi siamo consci e consapevoli di mostrarci agli altri, anche nelle foto che carichiamo sui social sognando che un giorno, qualche occhio del Grande Fratello veda anche la nostra di vita “costruita ad hoc” e voglia farne un reality!
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