Una relazione di coppia può durare all’infinito? È necessario cambiare chi siamo per riaccendere il fuoco di un amore? Identità, ossessione, ricerca dell’amore, sono i punti cardine di questo appassionante film che ricorda una tragedia greca.

Il viso è da sempre il mezzo prediletto dell’uomo per comunicare ed esprimersi, in questo periodo a causa del covid ci accorgiamo di quanto sia difficile capire chi abbiamo di fronte se indossa una mascherina. Non solo è complicato capire chi sia la persona ma anche quali siano le sue emozioni ed i suoi desideri.
Time è un film del 2006 di Kim Ki-duk, geniale regista coreano appena scomparso per complicazioni legate al covid.
Una giovane coppia si ritrova nel bel mezzo di una crisi, la gelosia e le incomprensioni rischiano di rovinare definitivamente la loro relazione quando la ragazza decide che l’unico modo per riaccendere il loro rapporto sia diventare un’altra donna per sentirsi di nuovo desiderata e riavvicinare il suo lui a sé. Si rivolge quindi ad una clinica specializzata per cambiare il proprio viso e presentarsi al suo uomo come una persona nuova. Quello che accadrà successivamente sarà però ben distante dalle sue aspettative iniziali.
Il film ci impone di rispondere ad interessanti domande su noi stessi quali “chi siamo?”, “cos’è la nostra identità?”, “possiamo davvero esistere senza essere riconosciuti dall’altro?”, “quanto siamo condizionati da quello che l’altro vede in noi?”.
La maschera in generale, basta pensare al rito del carnevale, ci trasforma in qualcosa d’altro e questo ci obbliga o forse ci permette di comportarci come chi non siamo. Ma la realtà è che non basta una maschera o un nuovo viso per cambiare chi siamo, magari possiamo nasconderci dietro di esso ma solo per un po’.
Partendo dalla storia del rapporto di una giovane coppia che si trascina monotonamente da due anni, a poco a poco il regista sposta il suo focus su tematiche sempre più distanti con una escalation che allontana sempre più lo spettatore dal problema concreto della relazione in crisi e lo conduce a porsi delle domande esistenziali su cosa sia o dovrebbe essere l’amore, sulla dipendenza, sull’idea stessa d’identità.
Il film ci interroga fin da subito su quale sia la durata di un amore e se lo stesso possa sopravvivere anche alla diminuzione della passione. Quali possono essere le modalità per fare risorgere un amore ormai al capolinea? Cos’è ammesso fare per amore? Un amore che ti porta a fare scelte estreme per te e il tuo partner è davvero amore? E se sì fino a che punto è lecito spingersi? Una linea di confine tra il rispetto e l’abuso che può diventare alquanto pericolosa.
Entrambi i personaggi principali possono essere considerati protagonisti, un altro aspetto con il quale Kim Ki-duk ha giocato per togliere uno schema preciso allo spettatore che non sa con chi empatizzare.
La protagonista femminile, See-Hee, scorge nel diventare un’altra persona l’unica soluzione alle sue insicurezze certa che, pur se fisicamente diversa, avrebbe riconquistato il suo uomo perché due anime affini non possono che ritrovarsi. Si rivolge perciò ad una clinica che si occupa di operazioni di modifica del viso, all’esterno della quale è in bella vista la scritta “Do you want a new life?”; quale offerta migliore per le aspirazioni di una giovane donna che non riesce più a sopportare le frustrazioni della sua vita attuale?
Il proverbio “l’abito non fa il monaco” non è contemplato in questa storia infatti la donna, ormai trasformata nel viso in qualcun’altra, si muta del tutto in un’altra persona, si allontana psicologicamente da chi era, da quella vecchia lei che, poiché rifiutata dal suo amore, non aveva più senso ad esistere. Quello che dà senso al suo essere è infatti solo il provocare interesse negli occhi di lui, Jim woo, dal quale è ossessionata, considerato l’unica sorgente dalla quale può abbeverarsi. Un totale annullamento del sé in funzione dell’altro.
Quando si accorgerà però che Jim woo pensa ancora alla vecchia lei non potrà accettarlo e paradossalmente diventerà gelosa della donna che era una volta. Diventerà gelosa di se stessa.
Il protagonista maschile inizialmente giudicato come più legato a impulsi materiali, come quando difende le sue pulsioni sessuali verso altre donne dicendo “D’altra parte sono un uomo!”, nel corso del film mette in mostra più sfaccettature della sua personalità. Abbandonato cerca all’esterno qualcuna che possa coprire il vuoto lasciatogli ma senza mai riuscirci completamente. Dopo aver scoperto le macchinazioni della sua ragazza ne rimane talmente sconvolto ed impaurito da cadere in un baratro di domande che lo spingono a giocare allo stesso gioco, mettendo a rischio la sua stessa identità.
Il regista coreano attraverso le peripezie dei due protagonisti ci spinge a riflettere sul fatto che quello che in realtà cerchiamo nell’altra persona non è la sua essenza ma la conferma dell’immagine che noi abbiamo di essa.
Le scene del film in modo ridondante vanno a costruirsi sempre negli stessi luoghi: il bar, il traghetto, l’isola delle sculture, l’appartamento, quasi che il regista voglia sottolineare come non ci possa essere altro in questa relazione, tutto torna a quello che era prima, il nuovo deve essere una riproposizione del passato, non ci può essere per i protagonisti un vero investimento in qualcosa di realmente diverso.
Kim Ki-Duk sembra strizzare l’occhio a “Doppio Sogno” di Schnitzler in due aspetti presenti nel film: attraverso l’immagine della maschera, che nel film è diventata mascherina protettiva utilizzata dalla giostra di personaggi che hanno deciso per motivi non sempre chiari di svoltare la propria vita cambiando il proprio volto, sia sottolineando come la quotidianità e il conformismo di un rapporto stabile possano rendere una relazione sterile e priva di amore. L’incognita è che più ci si allontana da un rapporto sicuro tanto più si rischierà di perdersi nell’imprevedibilità della vita.
Anche il tempo, celebrato dal titolo Time, smarritosi nella ricerca di chi siamo e di chi sia l’altro, torna in modo beffardo al termine del film su se stesso creando un ulteriore straniamento nello spettatore.
Nel finale i personaggi abbandonano completamente il senso della loro identità dalla quale hanno cercato di allontanarsi per sfuggire al dolore della perdita. L’unica presunta e amara salvezza sembra essere quella di sparire fra la folla annullando del tutto la propria identità in essa.
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