Un Lynch atipico, che abbandona il suo daimon fatto di ombre scolpite e senza nebbia, raramente codificabili e perciò materiale ideale per analisti, per approdare a una storia semplice.
Quella di Alvin, un 73enne malconcio che decide di andare a trovare suo fratello che ha avuto un infarto, e con cui non parla da 10 anni. Dato che vive in un altro Stato e non ha la patente, l’unico modo per farlo è inforcare un vecchio tosaerba e viaggiare per più di 300 miglia a un ritmo da cicloturista. Per dirla con Kavafis, Omero e Lucio Dalla è il viaggio (e non la meta) ciò che conta davvero; e in questo viaggio fatto di incontri, di stelle, di regali inaspettati, di silenzi e di lunghe pausa, Alvin scopre un mondo che non conosceva e lentamente si apre alla vita, proprio in quella stagione in cui ci si aspetta inesorabile un lento ritiro dal mondo.
Alvin invece il mondo lo attraversa, lo occupa con il suo corpo e i suoi pensieri, lo solca come la prora di una nave solca le acque che si richiudono dopo il suo passaggio. Sembra che nulla cambi, ma è in questo modo di affrontare il tempo, ripensare un rapporto ormai logoro, accettare il rischio di un rifiuto, che Alvin dà un senso al tempo che gli rimane. E’ un senso limpido, accessibile e pulito, quello da cui la narrazione di Lynch spesso si sottrae per esplorare – con grande talento, beninteso, ma scarsa attenzione per lo spettatore – altri mondi irrisolti. La luce di questo film è tutta nel raccontare come la vita di tutti i giorni, magari dopo una svolta inaspettata, presa per capriccio o per dovere, sia in grado di spalancarci oceani e offrirci un mezzo qualsiasi per navigarli. Il resto spetta a noi.
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