La memoria e la morte
“Per entrare in noi una persona è stata obbligata e prendere una forma, a piegarsi al quadro del tempo; apparendoci solo per minuti successivi non ha potuto darci di sé più di un aspetto solo alla volta, non ha potuto offrirci che una sola fotografia. Gran debolezza certo, per una persona, quella di consistere in una collezione di momenti; gran forza, anche; ha a che fare con la memoria e la memoria di un attimo non è informata di tutto quello che è successo in seguito; quel momento ch’essa ha registrato dura ancora, vive ancora e con esso la persona che vi si profilava. E poi, quello sbriciolamento non fa solo vivere la morte; la moltiplica. Per consolarmi, non una, ma innumerevoli Albertine avrei dovuto dimenticare. Quando ero arrivato a sopportare il dolore di aver perduto questa, dovevo ricominciare con un’altra, con cento altre”.
stralcio da “Albertine Scomparsa” di Marcel Proust
UN’ESTATE D’AMORE (1951) di Ingmar Bergman
Vero….la morte di una persona amata moltiplica le tracce isolate della memoria….e la consapevolezza di un desiderio che non potrà mai essere soddisfatto costringe ad abbandonarsi , inconsciamente, alle fotografie reminiscenti di quegli attimi gioiosi quale solo sfogo di una non-consolazione.
Il parallelo tra le tragiche sorti di Albertine della “Alla Ricerca del Tempo Perduto” di Marcel Proust e di Henrik di “Un’Estate d’Amore” di Ingmar Bergman, ed il relativo flusso mnestico che il dolore ne fa conseguire, ci immerge nell’opera di Bergman del 1951.
Marie, affermata ballerina di danza classica, riceve in busta anonima un diario che riconosce subito. Esce dal teatro, e con la sua mesta e, oramai, stanca andatura, si dirige al battello per recarsi su un’isola. Che Lei conosce bene. Il pomeriggio scuro, come la tetra natura circostante sembra accoglierla mentre si dirige in una casupola sulla riva. Entra…si guarda intorno…si siede….chiude gli occhi…… e si abbandona alle immagini di 13 anni prima.
Promettente ballerina, gaia, sempre sorridente, entusiasta della vita e della sua adorata professione, incontra Henrik, giovane universitario, e suo ammiratore, tenero, gentile, timido, innamorato di Lei. Scoprono che trascorreranno l’estate in luoghi vicini, e Marie rimembra le gite in barca, le onde lucenti, gli approdi intimi dove le parole di due giovani belli e sorridenti sublimavano quella spensieratezza che solo l’ingenuità amorosa, quella della “prima volta”, può contenere. E che neanche alcuni tristi (visionari?) pensieri di Lui, o la sfacciata corte a Marie da parte dello zio di Lei, e la relativa gelosia di Henrik, potevano intaccare. Henrik gli esterna finalmente il suo amore…..di nuovo nella casupola….di nuovi i ricordi…di quando Marie porta a casa sua Henrick…del primo bacio nella camera di Lei…..quella con il megafono e la sbarra a muro per allenarsi.
Marie, in questa continua osmosi tra immagini passate e tristezza del presente, tra un antico paesaggio luminoso ed una attuale natura scura, lascia la casupola e raggiunge la sua vecchia casa, lì vicino, dove incontra lo zio il quale gli confida di aver mandato lui quel diario, che è quello di Henrik, conservato in tutti questi anni. Arrabbiata riprende il battello per il ritorno….e di nuovo i ricordi….di quella mattina d’estate…di quello strano presagio, il grido di una civetta, del sorriso di Lui sullo scoglio, di quel tuffo…e di quel tragico epilogo. E, per ultimo, di quel dialogo, con lo zio, e del suo cinico e “seducente” consiglio di “erigere” intorno a Lei e al suo mondo che ama, cioè la danza, un muro protettivo, evitando così di soccombere al dolore. Così decide di fare un viaggio di un anno con lo zio, che gli consentirà di dimenticare quello che è successo.
Il diario di Henrik, l’inaspettato passepartout del percorso mnestico nel tragico passato di Marie, rappresenta tuttavia un trauma, e come tale frantuma quel limbo in cui Lei era oramai assorta, ma che la aveva mutata, profondamente, per 13 anni. Ed in negativo. Marie oramai calzava perennemente una maschera, che non dissimulava neanche dopo gli spettacoli o le prove. Una maschera di donna fredda, sola, apatica, in disagio nei confronti del mondo intero. L’intervento del suo vecchio maestro di ballo che con un bellissimo dialogo nel camerino di Marie la costringe a rivedere le scelte della sua vita, ed il concomitante ingresso, nella stessa scena, di un suo ammiratore, con il quale c’era un approccio amoroso mai definito, gli provocano una riflessione. Quel diario, cioè l’elemento ontologico del trauma, l’uncino unificante del tempo tristemente fuggito, potrebbe avere, forse, anche un altro scopo…….
Un’estate d’amore non solo è un film stupendo. E’ soprattutto un film importante, per alcuni riferimenti postumi. Il primo, immediatamente percepibile, è quello ambientale di “Monica ed il Desiderio”, che uscirà 10 anni più tardi. Molti punti in comune tra i due film. Stessa natura, intesa non in maniera generica, ma quale identità morfologica e che accompagna, sul versante delle sue manifestazioni climatiche, gli umori delle due coppie (quattro giovani protagonisti molto simili, tra l’altro, anche fisicamente). E’ evidente anche il germoglio (insieme a “Verso la Gioia”) dell’incidenza della memoria di “Il Posto delle Fragole” del 1957, nonché dell’inesorabilità del destino della trilogia del “Silenzio di Dio” che uscirà 10 anni dopo.
Ma il fulcro dell’opera, quello che resta negli occhi e nell’animo dello spettatore, è sicuramente la duplice rappresentazione geniale della rimembranza: consentire il “viaggio” nel proprio passato e suscitare una riflessione sulla capacità attuale di edificare, ove possibile, le fondamenta di un nuovo “inizio”.
Come nella vita, del resto.
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