Until the Break of Dawn (titolo originale ツナグ, Giappone, 2012). Regia di Yūichirō Hirakawa. Interpreti principali: Tōri Matsuzaka, Ito Ôno, Kirin Kiki, Mirei Kiritani, Ryūta Satō, Ai Hashimoto

Qual è il compito essenziale della vita?
Invecchiare con un cuore allegro, fermarsi quando voglio essere attivo,
stare in silenzio quando voglio parlare.
Avere speranza nei momenti di frustrazione con umiltà e serenità di cuore, per portare la mia croce.
Allontanare l’invidia quando i giovani camminano sul sentiero salutare di Dio,
accettare umilmente dagli altri quando preferirei io dare aiuto.
Quando non posso più essere utile agli altri a causa della fragilità
devo accettare delicatamente ed umilmente il pesante fardello della vecchiaia come un dono di Dio
e dare al vecchio cuore un’ultima lucidatura per tornare alla mia vera casa”.

A seguito della morte dei genitori, avvenuta in circostanze non ancora chiarite, Ayumi è stato cresciuto dalla nonna Aiko. Arrivato al liceo la nonna, sempre più anziana, decide di donargli un potere che si trasmette solo per via ereditaria: è lo “Tsunagu”, e consiste nella possibilità di aiutare le persone a entrare in contatto con i defunti. Tale opportunità può essere data una sola volta al vivente e una sola volta al defunto. Lo Tsunagu è il connettore, colui che chiede al defunto se intende accettare l’invito e, in caso di risposta positiva, organizza l’incontro nella stanza di un albergo di lusso; qui i due potranno incontrarsi da soli e parlarsi fino al sorgere del sole, quando il defunto scomparirà per sempre.    

Se ciascuno di noi avesse la possibilità di incontrare nuovamente una persona, una sola, tra quelle che non sono più in vita, chi sceglierebbe? E cosa vorrebbe dirgli? E’ la prima riflessione che emerge quasi naturalmente durante la visione del film. Ma le domande che si pone Ayumi, fin dalle prime scene, sono altre: dove si trovano, oggi, i nostri defunti? Sono davvero contenti di parlare con noi ancora una volta? Di rispondere alle nostre domande, senza però poterle vivere, quelle risposte? E ancora, perché cercare chi non c’è più per parlargli ancora? Cosa è rimasto in sospeso, cosa si è perduto nel flusso di giorni sempre uguali, cosa invece avrebbe potuto essere diverso? E siamo certi di poter dire tutto, proprio tutto, a chi è morto, anche i segreti per noi più inconfessabili? Oppure la barriera indivisibile che separa questi due mondi è la stessa che non ci consente di poter essere del tutto sinceri?

Fin dall’inizio il film ci porta per mano in una dimensione sospesa: la città, la metro, il traffico, la folla, tutto transita sullo schermo come attutito da questi interrogativi, che emergono lentamente con lo sviluppo della trama: si inizia lentamente, con un figlio che cerca i documenti di proprietà della casa di famiglia per mezzo del contatto con la madre defunta e pensa che il “connettore” sia un semplice truffatore. Poi il rapporto tra un uomo e la sua fidanzata, scomparsa nel nulla sette anni prima, e un’amicizia conflittuale tra due ragazze che frequentano lo stesso liceo di Ayumi. Tutti i sopravvissuti chiederanno un contatto, e tutti i defunti lo accetteranno, per parlarsi un’ultima volta e chiarire tutto ciò che era rimasto sospeso in un non detto che la morte ha trasformato in mistero. E non importa cosa è successo davvero, qual è la soluzione ai quesiti portati da chi è rimasto: se viene dai nostri morti la verità diventa un fatto inossidabile e quindi salvifico, in grado di riscattare anni di mancate risposte. E’ meglio aver provato e avere fallito, piuttosto che rimanere fermi nel rimpianto, meglio uscire dalle rotte consuete e mettere in gioco le proprie insicurezze.

Nel passaggio del testimone tra Aiko e il nipote queste domande avvolgono come una carezza sottile il dono di famiglia che viene tramandato da una generazione all’altra. Domande che, da universali quando nascono, si trasformano dentro il mondo del nuovo connettore per aprire lentamente uno squarcio sul mistero che ha segnato la sua vita fin dalla più tenera infanzia.

La regia ha la capacità di raccontare una storia soprannaturale inserendola con naturalezza all’interno del ciclo di vite ordinarie, facendola vibrare di quotidianità e non di infinito, e proprio per questo rendendola una parabola possibile per tutti noi, un’opportunità in più di capire il senso delle nostre vite. Lo stesso senso che Aiko, alla fine del film, riassume nelle parole riportate in apertura della nostra riflessione.