Puoi farmi quello che vuoi, quando te ne sarai andato basterà un bagno caldo e sarò nuovamente quella di prima
(Jill, C’era una volta il west)

Va tutto bene (Titolo originale Alles Ist Gut, Germania, 2018). Regia: Eva Trobish. Interpreti principali: Aenne Schwarz, Andreas Döhler, Hans Löw, Tilo Nest, Lina Wendel, Lisa Hagmeister

E’ la storia di una donna, Jeanne, raccontata nel corso di un’estate calda che immaginiamo in Bassa Baviera. Con Piet, il suo ragazzo, sta cercando di restituire dignità abitativa a una casa di campagna lasciata da uno zio, togliendo cartongesso e spostando masserizie. Entrambi lavorano in ambito artistico ma senza alcuna sicurezza economica. Una sera Jeanne si ritrova a una rimpatriata con vecchi compagni di scuola, e tra un bicchiere e l’altro fa amicizia con Martin. Tornando a casa si offre di ospitarlo, e anche se è molto chiara nel rifiutare i suoi approcci lui la stupra ugualmente: è una scena di sopraffazione fisica brevissima, dove viene espresso affanno, malessere alcolico e subito dopo un profondo senso di vergogna.

Lui se ne va senza una parola, lei si mette a letto senza fare la doccia.

La vita prosegue come se nulla fosse successo. A Jeanne viene offerto un lavoro nella casa editrice di Robert, un suo vecchio amico, e lì ritrova come collega Martin, cognato di Robert. Ogni incontro nei corridoi è un peso per entrambi: lui non fa che scusarsi, lei non perde occasione per minimizzare l’accaduto, dichiararne, anche a se stessa, la scarsa importanza.

Rimuovere le proprie emozioni può essere una risposta, ma spesso conduce a evitare ogni occasione di conflitto: lo fa con Piet, che vorrebbe litigare con un cameriere al ristorante o menare un ex socio che lo ha truffato.

Con la madre, che le chiede preoccupata cosa è successo senza ricevere risposte. Così quando si scopre incinta e decide di abortire, non ha nessuno a cui chiedere di accompagnarla. Forse non vuole essere di peso; o forse si domanda chi possa stare con lei in un momento così delicato, e non le viene in mente nessuno. Appiattire le proprie emozioni le offre l’illusione del controllo, togliendole al contempo ogni problema di rifiuto.

Il rapporto con Piet precipita lentamente, greve di silenzi, fino alla notte in cui lui la chiude fuori di casa e Jeanne, rimasta sul pianerottolo, per tutta reazione si spoglia e infila i vestiti nella buca delle lettere, un altro modo per esprimere una richiesta senza fare rumore.

Alla fine del film sceglierà di ribellarsi per la prima volta a un mondo che le sta crollando attorno. Ma, come accade spesso, alzerà la voce con la persona e nella situazione sbagliata.

La mano di Eva Trobish è salda nel seguire i protagonisti di questa storia con la camera a mano, creando un effetto quasi documentaristico. La scelta narrativa è non spargere indizi che possano indicarci i motivi della scelta di Jeanne di non denunciare lo stupro. Non è per mantenere il lavoro, perché non ce l’ha ancora, e lo troverà più tardi. Non per sudditanza, perché è una donna adulta e autonoma che vive un rapporto di coppia alla pari. Non si tratta nemmeno di passività, perché Jeanne fa le sue scelte e risponde delle conseguenze. Non sappiamo nulla del padre, assente, e abbiamo pochi indizi della madre. Come se entrassimo a metà storia e ne guardassimo un semplice segmento.

Uno stupro da attraversare come fosse una pozzanghera: ci si sporca un attimo, ma non c’è bisogno di cambiarsi d’abito. Il cammino prosegue senza alcuno strappo visibile. Giornate simili tra loro con poche certezze,  progetti che non vedranno la luce, un nuovo lavoro che aiuta a rendere il tutto il resto impermeabile, chiudendolo fuori dalla porta. Delitto senza passione, aveva scritto uno dei più grandi sceneggiatori della Hollywood degli anni d’oro.

Che in questa storia è stato derubricato a semplice incidente, per non sentire nessun dolore.