Vogliamo i colonnelli (Italia, 1973). Regia: Mario Monicelli. Interpreti principali: con Ugo Tognazzi, Duilio Del Prete, Giuseppe Maffioli, François Périer, Carla Tatò, Claude Dauphin
Un attentato al Duomo di Milano segna l’avvio di una strategia della Grande Destra tesa ad accusare le forze della Sinistra e destabilizzare il Paese fino al punto di prendere il potere con l’Esercito. Secondo l’onorevole livornese Giuseppe Tritoni – che trasuda testosterone e decisionismo – la democrazia è un male che va estirpato: troppo dibattito e confronto democratico indeboliscono le coscienze e inebetiscono i cittadini. E dalla Grecia, dove un colpo di Stato ha appena consegnato il governo ai militari, arriva un consulente che può insegnare ai sovversivi la tattica vincente da utilizzare. Così, con in mano una lista di fedelissimi fornitagli da un generale, Tritoni avvia il suo reclutamento per il piano “Volpe nera”.
Attraverso una finta inchiesta giornalistica (tecnica che solo molti anni dopo sarebbe stata ribattezzata come mockumentary, neologismo di recentissima creazione costituito dalla crasi tra “mock”, prendere in giro, e “documentary) il film racconta la genesi di questa impresa ed inquadra da presso i suoi protagonisti: un’accozzaglia variegata di militari ed ex militari che ricordano con affetto il Ventennio, i cui cimeli arredano le case, nostalgici di un’epoca felice in cui solo loro avevano la chiave per governare con ordine e disciplina lo Stato. Il casting è straordinario, e le caratterizzazioni dei personaggi sfiorano la caricatura.

Il grottesco, che spesso Monicelli ha utilizzato come piano di lettura del mondo, assurge a paradigma narrativo sia nello sviluppo della vicenda che nel linguaggio attraverso il quale viene raccontata: mentre la raccolta di un ristretto gruppo di fedelissimi mette in primo piano un nucleo di personaggi vanagloriosi e ottusi, la semantica dagli stessi utilizzata si caratterizza per un machismo becero e le relazioni tra le persone si riducono al livello semplificato di scontro tra forze contrapposte, in cui si utilizzano lemmi primari alternati ad epiteti volgari (e la donna è considerata, ça va sans dire, un semplice strumento per appagare il desiderio maschile).

La struttura ricorda quella de I soliti ignoti e L’armata Brancaleone, entrambi di Monicelli: la costruzione di una squadra per un obiettivo altamente sfidante, ma da perseguire con risorse completamente inadeguate; e una lingua figlia del tempo in cui si svolge la storia, che poi è un passato mai veramente elaborato, ancor oggi altamente divisivo, rimpianto da alcuni e maledetto da altri.
Nel 1973 l’Italia aveva sfiorato, come polvere caduta da un’impalcatura e presto scrollata dalla giacca dei passanti, due tentativi di golpe: il Piano Solo del generale dei carabinieri De Lorenzo, fallito ancor prima di iniziare, e il tentativo di Junio Valerio Borghese, dallo stesso annullato. Anni duri, freddi, di contestazioni e contraddizioni fortissime, in Italia e nel resto del mondo: nello stesso anno in cui usciva il film, in un 11 settembre passato ormai in secondo piano, il generale dell’esercito cileno Augusto Pinochet prese il potere con un colpo di Stato, bombardando la residenza del presidente della Repubblica cilena. In Italia un anticomunismo viscerale univa coloro che rammentavano con orgoglio gli antichi fasti, e i nuovi boiardi di Stato che, pur di mantenere il potere acquisito nel dopoguerra, sarebbero scesi a patti con chiunque.
Il fatto che la copertina forse più celebre del foglio satirico “Il male”, qualche anno dopo, avrebbe falsificato la prima pagine di Paese sera pubblicando l’arresto di Ugo Tognazzi come capo delle Brigate Rosse, fa parte di quella realtà che spesso si diverte a superare la fantasia.

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