Un’analisi dal punto di vista della psicologia del profondo nell’opera di De Filippo del 1948
Con il presente si dà inizio a una serie di articoli di analisi dal punto di vista della psicologia del profondo delle commedie “nere” di Eduardo De Filippo, tratte dalla raccolta che negli anni ’70 avrebbe preso il nome della Cantata dei giorni dispari. Alcune di queste commedie furono trasmesse in televisione a partire dagli anni ’50. Con questi lavori, Eduardo contribuì all’elaborazione dei traumi morali subiti dall’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale e, più avanti, alla definizione dei mali che affliggono il nuovo tipo umano e la sua società.
La commedia di cui mi occuperò in questa sede è Le voci di dentro (1948). Per fare ciò, farò leva su tre sogni che vengono presentati nella narrazione, dividendo l’articolo in due parti: nella prima analizzerò il sogno di Maria la cameriera e quello di donna Rosa Cimmaruta; nella seconda il sogno di Alberto Saporito, da cui parte l’intera vicenda: convinto di aver veduto la famiglia Cimmaruta assassinare il suo amico Aniello Amitrano, Alberto li fa arrestare. Ma quando non riesce a trovare le prove (una camicia insanguinata nascosta, a suo dire, dietro un mobile), si rende conto di aver sognato ogni cosa.
La rappresentazione presa in esame è quella trasmessa dalla Rai nel 1978. La commedia si apre su una scena tutto sommato leggera pur se malinconica nella miseria post-bellica che si respira. La signora Rosa Cimmaruta è intenta a rassettare e si sofferma sulle candele e il sapone che ha fabbricato da sé in casa per ovviare alle difficoltà economiche. Dopo un po’ di teatrino con il custode Michele e Maria, la cameriera scansafatiche, viene posto davanti allo spettatore il primo elemento secondo me interessante.
IL SOGNO DI MARIA
Maria rammenta un sogno fatto la notte precedente, che riporto in italiano, nei punti più interessanti per il caso che andiamo trattando (per chi volesse, su YouTube è presente la scena: https://www.youtube.com/watch?v=VnrE6RfbXlA). Lo interpreterò alla luce delle categorie a me più congeniali, quelle psicologico-analitiche di stampo junghiano.
«Stavo qua, in cucina e pulivo i broccoli per la cena. […] Quando all’improvviso, da una foglia esce un verme […]. Mi guarda e mi dice: “E brava… ora io, per causa tua, sono rimasto senza casa. Non fa niente, stammi bene”. “E dove vai?” gli ho detto io. “Dove devo andare, vado in chiesa, mi inginocchio e prego”. “E allora vengo anche io! ti accompagno”. E siamo usciti insieme. Improvvisamente è venuto a piovere, il verme mi ha guardato e ha detto: “Ho l’ombrello”. L’ha aperto e dopo poco ci siamo trovati davanti la chiesa. Il portone era chiuso. Lui mi ha guardato e ha detto: “Io entro lo stesso perché posso strisciare sotto la porta”. “E io?” “E tu resti fuori, che posso farci? Aspetta che la porta si apra”».
Nella vita umana, sogni contenenti animali parlanti rappresentano un contatto con un livello psicologico più profondo che coinvolge contenuti di natura anche sovrapersonale, o collettivo che dir si voglia. L’animale funge cioè da psicopompo, collegando la coscienza a dei contenuti sconosciuti. Considera le caratteristiche dell’animale e le reazioni che suscita, è possibile farsi un’idea anche dei contenuti con cui mette il sognatore in contatto. Il verme è un animale “inferiore”, è privo di un sistema nervoso centrale, e rimanda col suo strisciare e il suo contatto con la terra, a qualcosa di primitivo e ributtante. I vermi sono inoltre associati al destino mortale dell’uomo, popolandone il corpo quando si disfa nella bara.
In effetti il sogno inizia a prendere toni molto cupi. Maria si ritrova a camminare in compagnia dello sgradevole animaletto sotto un temporale e le viene negato l’accesso in chiesa, luogo in cui avrebbe potuto trovare riparo fisico e si può supporre, dalla prosecuzione del sogno, anche spirituale:
«“Ma sta piovendo” “Prendi l’ombrello e aspetta”. Strisciando sotto la porta è entrato in chiesa e non l’ho più visto. Ho aperto l’ombrello e mi sono incamminata. Mentre camminavo, sempre con l’ombrello aperto, sentivo una goccia d’acqua cadermi al centro della testa, sempre nello stesso punto. […] All’improvviso la goccia è diventata una scintilla di fuoco: mi ha fatto un buco in testa e si è intromesso dentro. Prima mi ha bruciato la lingua, poi lo stomaco, poi i polmoni… A un certo punto ho sentito urlare: “A me non bruci!”. Era il cuore! Era il mio cuore che per non finire bruciato è uscito dalla pancia e si è messo a correre. “Fermati” gridavo… “Fermati… Io come vivo senza cuore”».
Nonostante l’ombrello, la cameriera viene infastidita da un goccia d’acqua. E anche qui è possibile stabilire un parallelo tra fisico e spirituale: l’idea della goccia che colpisce nello stesso punto si associa a un tormento interiore, qualcosa che ci turba nella nostra pace. L’acqua si trasforma in un fuoco che penetra nel corpo di Maria e giunge fino al cuore, il quale si ribella al destino toccati agli altri organi. Lascia il suo corpo, lasciandola al suo destino. L’abbandono del cuore è un’immagine assai perturbante che rimanda, come il verme, al termine della vita. Piena di panico, Maria lo insegue ma fallisce nel raggiungerlo:
«Infine, tutta sudata e stanca, ho voltato in una strada e mi sono trovata di fronte al verme. Il quale mi ha detto: “Se vuoi salvarti, prendi questa pistola e spara a quel pezzente seduto sul marciapiedi”. Io gli ho sparato… Ma sapete qual è il bello? Che appena gli ho sparato, il pezzente è diventato una fontana… Il verme ha detto: “Hai sete?… E bevi!” Io mi sono messa a bere… Signora, quella non era acqua, era sangue… E io bevevo… bevevo…” »
Il sogno termina con un’ennesima immagine di morte, questa volta inflitta dalla cameriera a un altro essere umano, con la promessa di salvezza da parte del verme. La fontana in cui il pezzente ucciso si trasforma, subisce anch’essa una mutazione, da simbolo di vitalità a simbolo di massacro: una fontana di sangue, cui Maria si abbevera, possiamo supporre, per recuperare la vita perduta. L’uccisione del pezzente si configura dunque come un vero e proprio sacrificio umano. E il sogno di Maria sembra riportare alla luce della coscienza un’immagine dell’umanità primitiva, da tempo sepolta, attraverso la mediazione dell’animale ctonio, il verme disturbato nella sua casa (leggibile come l’inconscio).
IL SOGNO DI DONNA ROSA
Col sogno di Maria vengono prefigurati i tre temi posti al centro de Le voci di dentro da Eduardo: il sogno come voce della verità, l’omicidio e il senso di colpa. Emergono con ancora più forza nel sogno di donna Rosa, un sogno altrettanto macabro, di carattere ancora più sconvolgente (link YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=DWZpxahf3qg&list=LL&index=1&t=17s) :
«Avevo sistemato la carne in un piatto. All’improvviso ho sentito “bee… bee.. e a me? Non mi sistemi?” Io mi sono voltata per vedere chi fosse. Non c’era nessuno. Ho pensato “forse sarà stata la mia immaginazione”, macché! Dopo un po’, la stessa voce: “E a me? Non mi sistemi?” Ho aperto la porta della cucina per vedere fuori chi ci fosse, e infatti chi ti trovo: un bel capretto che come mi ha visto si è tolto il cilindro, ha posato il bastone, si è tolto i guanti e si infilato in cucina. Mi ha detto: “Facciamo presto, perché non ho tempo da perdere”. L’ho preso, l’ho messo sul tavolo, ho preso un bel coltello e l’ho squartato».
Anche questo sogno si apre su una scena banale che viene sconvolta da un animale parlante, ma questa volta di natura non inferiore. Il capretto rimanda alla figura dell’agnello e come quest’ultimo nell’iconologia occidentale, nel sogno si lascia uccidere mite e accondiscendente. Il riferimento cristologico è molto semplice da cogliere, ma il resto del sogno aggiunge al contenuto onirico qualcosa di barbarico. Il capretto viene cucinato e servito agli ospiti di donna Rosa, ma davanti agli occhi della donna il pasto diventa un atto di cannibalismo:
«[…] ma quello non era un capretto, era un bel bambino biondo, con tutti i riccioli, i boccoli… E chi mangiucchiava una coscia, chi mangiucchiava un braccio, le costolette, le orecchiette… e tutta questa gente che mangiava diceva: “Ma com’è buono! Com’è bello questo bambino! Dammi quel dito! Dammi quell’orecchio!” e mangiavano».

Il bambino che viene consumato a tavola ha i riconoscibilissimi tratti del Gesù bambino che si può vedere in un classico presepe napoletano. Come nel sogno di Maria, un simbolo conciliante come la fontana, in questo caso l’agnello sacrificale che dovrebbe appunto sostituire il bambino, si trasforma in un oggetto aberrante. Come nel bere sangue di Maria, anche nel mangiare degli ospiti di donna Rosa ci sono urgenza e voracità, una sorta di insensibilità davanti all’atto orrendo compiuto. Anche in questo caso indicando l’emersione di contenuti psichici violenti e arcaici che non si riesce più a tenere a bada.
CONCLUSIONI
Si potrebbe dire che con queste degradazioni simboliche, i sogni immaginati da De Filippo stiano a indicare la degradazione del livello di civiltà e di umanità subita dall’Italia che esce dalla Seconda Guerra Mondiale, sconvolta, come donna Rosa alla fine dell’incubo, dalle atrocità subite e inflitte. Come accade nella psiche individuale, anche quella collettiva finisce in certe condizioni critiche per subire una regressione. In certi casi, l’abbassamento del livello generale ha come conseguenza la riemersione dei contenuti primitivi negativi (non sempre primitivo e negativo sono sinonimi, infatti) che De Filippo porta in scena, facendoli sognare ai suoi personaggi.
Il valore dei sogni subisce dunque una torsione: da elaborazioni fantastiche portatrici di magia nella realtà, a voce della verità su un reale cupo, che nella vita cosciente non si dice – le voci di dentro appunto, che tutti i personaggi, nessuno escluso, hanno il terrore di ascoltare. Sotto il profilo psicologico si può dire che De Filippo stia mettendo in evidenza la violenza che dissotterrata nella prima metà del Novecento, molto lontana dall’essere sparita dopo la fine dei conflitti europei, tormenta ogni membro della società dall’interno, sempre pronta a mostrare la faccia.
Per concludere cito le parole dell’altro personaggio che ascolta i racconti dei due sogni, Michele il portiere, attraverso cui emergono il rapporto tra le condizioni in cui versa la realtà e la qualità delle voci di dentro:
«Se uno volesse stare ad ascoltare i sogni… Io, per esempio, non sogno mai nulla. La sera mi corico stanco che lo sa Dio… ma da ragazzo, sì. Quando ero ragazzo facevo un sacco di sogni…. ma sogni belli… certi sogni che mi facevano svegliare tanto contento, che mi veniva la voglia di uscire, di lavorare. […] Ma allora la vita era un’altra cosa. Era, diciamo, tutto più facile; e la gente era pura, genuina. Uno si sentiva la coscienza a posto […]. Non c’era la malafede. […]. Ed ecco che di notte ci si fa la fetenzia dei sogni».
Gian Marco Ferone
iscriviti alla newsletter di cinema e psicologia!
PILLOLA AZZURRA NIENTE NEWSLETTER. PILLOLA ROSSA: VEDRAI QUANTO È PROFONDO IL SITO DI CINEMA E PSICOLOGIA
Riceverai direttamente al tuo indirizzo e-mail:
• Le liste dei film suddivisi per tematiche psicologiche
• Psico-Recensioni di film in uscita
• I prossimi eventi di cinema e psicologia
Grazie per la tua sottoscrizione!