CONCLUSIONI SULL’IMMAGINE DEL MASCHIO NEL LAVORO DI FELLINI E MASTROIANNI

In questo articolo conclusivo sul lavoro di Fellini e Mastroianni, proverò a tirare una conclusione circa la tematica del maschile che in esso si ravvisa. Lo farò attraverso un’analisi de La Città delle Donne (1980).

Snàporaz e Katzone: la virilità comica

Nei precedenti articoli su Fellini e Mastroianni, il personaggio Snàporaz, è stato prima del tutto taciuto, poi apparso come misterioso soprannome. Ne La Città delle Donne, diviene l’identità del protagonista. Snàporaz sembra uno spettro latin lover, che staccatosi da Marcello Rubini tormenta prima Guido Anselmi e finisce per prendere possesso del Maschio felliniano rappresentato da Mastroianni. L’aspetto interessante è la maniera in cui questa virilità eccessiva evapora in pochi minuti.

Snàporaz è diverso dai precedenti personaggi maschili di Fellini e Mastroianni in quanto del tutto in balia della donna. Il suo è inizialmente un atteggiamento da satiro: approccia una donna in treno, la insegue tra i boschi con molesta insistenza. Ma in un convegno femminista dall’aspetto minaccioso. Con minaccioso si sottintende, anzi si tace (è un maschio che scrive), la parola castrante. Le donne del film lo terrorizzano, lo assalgono, provano addirittura a violentarlo o vanno molto vicine al togliergli la vita. E in tutte le vicende, Snàporaz è sempre passivo, inerte, subisce tutto con incredulità o rassegnazione. Solo grazie all’aiuto di alcune femministe buone (una di loro si definisce «materna») riesce a fuggire dall’albergo.

Trova la sua controparte in Katzone, un personaggio esageratamente virile, una caricatura del maschio latino di cui Fellini e Mastroianni fanno il verso lungo i tre film analizzati in questa serie di articoli. Ma ormai innocuo, anche un po’ tocco, perduto nelle sue fantasie di onnipotenza. Circondatosi di armi, cani aggressivi, oggetti fallici e altri marchingegni per il piacere sessuale, Katzone è un uomo al tramonto della propria età virile che non vuole abbandonare questa immagine di sé. Non per niente si professa grande ammiratore di D’Annunzio e la sua stessa casa sembra un’esagerazione del mito che circondava il Vittoriale.

Ha eretto nel suo palazzo minacciato dalle «nuove padrone» – termine con cui si riferisce alle femministe che cercano di imporgli la distruzione della sua abitazione fallocentrica – un santuario a se stesso, circondato da loculi in cui ha conservato dei nastri che portano la registrazione degli amplessi avuti con tutte le donne della sua vita. Sotto questa ridicola pompa dedicata alla propria potenza sessuale, sta però un’adorazione per la figura della mamma, cui è dedicato un posto speciale nella casa, attraverso la dedica di un busto in gesso.

Ultime osservazioni

Le trovate di Fellini sono stanche, prevedibili e in effetti l’intero film risente di questa prolissità. A mio parere è però necessario che ciò accada, poiché è lo stesso soggetto – il maschio “classico” – a trasmettere la medesima sensazione allo società cui il film è rivolto: qualcosa di noioso, ripetitivo, tutto apparenza e niente sostanza. Come se Fellini stesse dicendo allo spettatore «parliamo ancora di questo? È proprio necessario?» La stessa “vittoria finale” di Snàporaz, nel tribunale in cui sembra venire condotto per la “colpa” di essere maschio, appare come un fatto egoriferito, e lo spettatore attento riceve immediatamente l’impressione che l’intera vicenda si chiuderà col suggerimento che si sia trattato tutto di un sogno. 

Katzone col busto della madre

Snàporaz si arrampica – incitato al suono di «incontrala!» dalla platea del tribunale – in cima a un’altissima soffitta dove apparentemente lo aspetta la Donna, con la D maiuscola. Vi trova un’anziana mandata da Katzone che gli porge una scala per una mongolfiera, guidata da un gigantesco pallone aerostatico a immagine di una delle femministe benevole che avevano agevolato la fuga di Snàporaz dal congresso. Sarà la stessa che con una freccia abbatterà il pallone e il volo di Snàporaz. Al termine della caduta si risveglia nello stesso treno da cui ha preso avvio la vicenda, di fronte a sua moglie.

 Raggiunto da tre donne interpretate dalle stesse attrice nel ruolo delle buone femministe, l’espressione del protagonista risprofonda nella sorniona indifferenza dell’inizio: non c’è nessuna lezione, tutto quello che si poteva dire sul rapporto maschio-femmina è stato detto, il resto sono divertenti fantasie surreali ed erotiche. Per tutto il film, Snàporaz si mostra svogliato, disinteressato all’azione. Accoglie ogni avvenimento con indolenza e anche quando resta scosso basta poco a che se ne dimentichi. Se non contribuisce alla costruzione di una nuova immagine di virilità, il lavoro di Fellini e Mastroianni fa molto per mostrare che quella vecchia – agonizzante ma ancora viva e drammatica ne La Dolce Vita – è ormai ridotta a una riproposizione, comica o autoironica di se stessa: come quando Snàporaz si chiede nel suo ridicolo inglese maccheronico «why are you so incorregible? No rispost!»